Tenetevi
forte e allacciate le cinture , perché il racconto che segue
è pieno di curve pericolose e improvvise inversioni di
marcia. Una storia di risparmi bruciati, di azionisti sul
lastrico e di migliaia di dipendenti destinati a perdere il
posto di lavoro. C’è dell’altro però, e forse di peggio,
nella vicenda molto italiana dei crack bancari.
Dopo tre anni di crisi, dissesti e salvataggi all’ultimo
respiro è infine andata in fumo la fiducia degli
investitori, (quel che ne restava) nelle autorità chiamate a
sorvegliare il mondo della finanza. Il naufragio ha messo
alla berlina i politici di governo: da Roma fino ai
commissari di Bruxelles. E i tecnici, cioè Bankitalia e la
Bce di Francoforte.
Se la certezza del diritto è l’ingrediente fondamentale che
tiene insieme un sistema economico, e quindi il mercato,
bisogna essere davvero degli inguaribili ottimisti per
individuare dei punti fermi nelle decisioni, spesso
contraddittorie tra loro, che hanno scandito i recenti
interventi nelle banche in crisi. Mesi, a volte anni, di
colpevole distrazione hanno preceduto forsennate corse
contro il tempo, in cui authority e regolatori sembravano
impegnati più che altro a scongiurare gli effetti delle
norme da loro stessi ideate e approvate.
Che dire, per esempio, della vicenda di Popolare Vicenza e Veneto Banca, al centro di un’inquietante rimpallo tra Francoforte, Roma e Bruxelles? Ancora all’inizio dell’anno i due istituti venivano considerati di “rilevanza sistemica” dai controllori della Bce, cioè tali da provocare “forti perturbazioni all’economia del Paese” in caso di crack. A giugno però le stesse banche sono state infine retrocesse alla categoria di operatori di importanza regionale.
Quindi niente risoluzione secondo le norme europee. Niente
bail in. Lo dice Francoforte. Bruxelles approva. E nel
weekend del 25 giugno il governo italiano partorisce in
poche ore un decreto che apre le porte all’intervento del
cavaliere bianco Intesa, finanziato e garantito dallo Stato.
Il tutto nell’ambito di una liquidazione coatta regolata dal
diritto italiano. Gli obbligazionisti senior, la categoria
più numerosa, sono salvi. Pagano i soci, peraltro già
rassegnati a perdere quasi per intero il loro investimento
dopo l’aumento di capitale dell’anno scorso. E restano in
mezzo al guado anche i detentori di bond subordinati, che
potranno accedere a un apposito fondo di tutela, ma solo in
pochi, delimitati, casi. Ce n’è abbastanza per innescare
nuove polemiche sui risparmiatori sedotti (dalle banche) e
abbandonati (dal governo).
Certo, poteva andare peggio, molto peggio. «Senza
l’intervento deciso nei giorni scorsi, le due banche
avrebbero immediatamente sospeso tutti i servizi», argomenta
il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. E i prestiti
alle piccole imprese e all’artigianato, sostiene ancora
Padoan, «sarebbero stati particolarmente colpiti». Il
salvataggio pubblico ha mobilitato risorse per un totale di
circa 17 miliardi di euro. Questi soldi sono stati in parte
girati a Intesa per neutralizzare l’impatto nel bilancio
della doppia acquisizione (4,8 miliardi) e per finanziare
(400 milioni) la ristrutturazione delle attività, cioè tagli
di personale e chiusura di sportelli.
La vera partita, quella che determinerà l’esborso reale a
carico dello Stato, e cioè dei cittadini contribuenti, si
gioca però sui crediti a rischio. Il governo conta di
recuperare almeno 9,9 miliardi sui 17,8 miliardi di “non
performing loans” (npl) segnalati nei conti delle due banche
del Nordest. In altre parole, nell’arco dei prossimi anni
l’incasso per le finanze pubbliche dovrebbe raggiungere
almeno il 55 per cento del valore originario del prestito.
Se lo Stato, che ha affidato la riscossione alla società
pubblica Sga, riuscirà nell’impresa, allora gli oneri a
carico del Tesoro potrebbero finire per ridursi nell’ordine
del miliardo o forse anche meno. Molti analisti però
considerano a dir poco velleitario il piano annunciato dal
governo, che si affida ai calcoli di Bankitalia. Secondo i
tecnici del governatore Ignazio Visco, quota 55 è
raggiungibile perché la massa dei crediti deteriorati potrà
essere gestita dallo Stato mediante «un approccio paziente».
Gli operatori privati attivi in questo settore puntano
invece a realizzare profitti nel breve termine. La soglia
del 55 per cento appare comunque molto elevata, almeno alle
attuali condizioni di mercato. Il traguardo potrebbe
diventare abbordabile solo se nei prossimi anni l’economia
dovesse crescere a ritmi molto più sostenuti di quelli
attuali.
Il rischio che l’intera operazione si risolva in un flop
miliardario a carico delle finanze pubbliche resta quindi
tutt’altro che remota. E questi ipotetici oneri futuri
andrebbero ad aggiungersi all’esborso per l’aumento di
capitale indispensabile per salvare dal crack il Monte dei
Paschi. Anche in questo caso, come è successo nelle
settimane scorse per le banche venete, l’operazione è andata
in bianco a fine 2016 per mancanza di investitori disposti a
scommettere sull’istituto senese. Qui però sarà lo Stato
direttamente a prendere una quota del capitale del 70 per il
cento, sborsando 5,4 miliardi.
Missione compiuta, può quindi affermare il ministro Padoan.
Mps non è andato in liquidazione. Le “forti perturbazioni
dell’economia” sono state evitate, anche se a pagare il
conto saranno ancora una volta azionisti e titolari di
obbligazioni subordinate. Questi ultimi vedranno
praticamente azzerato il loro investimento, a meno che non
riescano a dimostrare di essere stati vittime di pratiche
commerciali scorrette, il cosiddetto misselling, da parte di
Mps. L’eventuale rimborso sarà finanziato dallo Stato con
una spesa massima prevista di 1,5 miliardi.
Il film delle crisi bancarie andrebbe però esaminato per
intero. Non basta valutare le ultime inquadrature, giusto
quelle che precedono i titoli di coda. E allora è
sufficiente tornare indietro di qualche mese per trovarsi
nel mezzo di un horror finanziario, una trama in cui le
scelte dei manager e delle autorità, di controllati e
controllori, appaiono in molti casi davvero difficili da
giustificare.
A Vicenza, per esempio, l’esercito dei soci della Popolare,
decine di migliaia di investitori nelle province del Veneto,
oltre 110 mila in tutta la Penisola, si era convinto che una
pulizia dei conti drastica e veloce avrebbe potuto salvare
la banca dal naufragio. Facile, sulla carta. Nei primi mesi
dell’anno scorso si è però scoperto che nessuno era disposto
a investire sul rilancio. L’aumento di capitale varato ad
aprile del 2016 rischiava di andare deserto e per evitare il
flop si è montata in fretta e furia l’operazione Atlante, il
fondo finanziato dal sistema bancario e dalla Cassa depositi
e prestiti che è diventato azionista unico dell’istituto
sborsando 1,5 miliardi. Molti ritenevano che la storia fosse
ormai avviata al lieto fine, con i manager responsabili
della precedente e scellerata gestione messi alla porta e un
nuovo consigliere delegato, Francesco Iorio, al timone già
dalla primavera 2015.
Proprio a questo punto, però, la vicenda ha preso una piega
che, a esaminarla con il senno di poi, pare davvero
incredibile. In sostanza, i nuovi padroni, cioè i gestori
del fondo Atlante, si rendono conto strada facendo che le
dimensioni del disastro sono molto maggiori di quanto si
credeva. Quel miliardo e mezzo dell’aumento di capitale si
rivela un semplice puntello per un’impalcatura pericolante.
E i controllori nel frattempo che fanno? I controllori
controllano, ma con i loro tempi. La Bce, a cui spetta la
vigilanza sull’istituto vicentino, manda i suoi ispettori a
fine maggio del 2016 per verificare tra l’altro la
correttezza della valutazione dei rischi sui crediti.
Ottimo, se non fosse che l’ispezione si conclude negli
ultimi giorni di settembre e i risultati vengono comunicati
ufficialmente alla banca solo alla fine del marzo
successivo. Nel frattempo, la Popolare resta in balia degli
eventi. Il numero uno Iorio se ne va e molti azionisti
invocano un’azione di responsabilità contro di lui per le
sue presunte responsabilità nel mancato risanamento. Alla
fine, il manager esce di scena incassando 1,5 milioni di
buonuscita e rinunciando a un’indennità supplementare di un
milione. Intanto, l’esercito degli azionisti è disorientato.
Con l’aria che tira, diventa sempre più difficile immaginare
di reclutare investitori che sottoscrivano un nuovo aumento
di capitale ormai inevitabile.
L’incertezza sulle prospettive dell’istituto finisce per
aggravare la situazione. Ogni giorno che passa aumentano i
clienti che decidono di portare i loro soldi altrove. Nel
2016 la Popolare Vicenza vede svanire altri 3 miliardi di
depositi, il 15 per cento del totale, che si aggiungono ai 7
miliardi persi nel corso dei dodici mesi precedenti. Per una
banca, qualunque banca, è molto difficile, per non dire
impossibile, far fronte a un salasso simile. Francoforte
però prende tempo, anche se ormai è chiaro che solo lo Stato
può mettere in campo le risorse necessarie per evitare il
crack. E infatti ai primi di aprile arriva il via libera. In
quanto istituti di rilevanza sistemica, Popolare Vicenza e
Veneto Banca sono ammesse dalla Bce alla cosiddetta
ricapitalizzazione precauzionale per 6,4 miliardi finanziata
con fondi pubblici. I soldi in arrivo da Roma, però, secondo
le regole europee devono servire a finanziare il rilancio e
non a coprire perdite del passato o imminenti. Questo è il
varco in cui si infila la Commissione di Bruxelles per
chiedere che anche i privati contribuiscano all’operazione
con almeno 1,2 miliardi. L’iniezione supplementare di denaro
serve a coprire il fabbisogno di capitale che deriva dal
ricalcolo dei crediti deteriorati nei bilanci dei due
istituti. Come dire che i conti sono ancora pieni di buchi
dopo ben due anni di pulizie straordinarie, con gran via vai
di manager e inviati della Vigilanza. Si è perso tempo
prezioso, mentre clienti e potenziali investitori fuggivano
a gambe levate.
Le residue speranze di salvare il salvabile si sono infine
spente nel gioco di rimpalli tra Roma, Bruxelles e
Francoforte. Ma prima di arrivare al capolinea del bail in
si è aperto l’ultimo paracadute. Contrordine: Popolare
Vicenza e Veneto Banca non sono di “rilevanza sistemica”.
Via libera quindi alla liquidazione secondo la legge
italiana. E all’intervento di Intesa. Con i soldi dello
Stato. Cioè i nostri.